mercoledì 21 aprile 2010

Idee per un Remake #1

Una delle tendenze cha ha dominato il cinema fantastico del decennio appena trascorso è quella del remake. Ne siamo stati letteralmente sommersi, decine di pellicole, da piccoli cult a capolavori fino a poco prima ritenuti intoccabili, sono stati rimasticati e adattati per il pubblico degli anni Zero, con risultati mediocri nel migliore dei casi. Il remake non è che un tassello del grande mosaico di quello che è ormai un strategia imperante nel cinema delle majors americane: fagocitare qualsiasi prodotto culturale di richiamo presso il pubblico (fumetti, libri,videogiochi, serie tv) per trasformarlo in un prodotto facile da vendere.

Come ho già detto sopra, i primi a venire colpiti dalla foga del remake sono film spesso seminali per il loro genere d’appartenenza . Se decidi di rifare Dawn of the Dead, Planet of the Apes o The Texas Chainsaw Massacre , ti butti in un confronto con modelli tali che non puoi uscirne senza le ossa rotte. Peccato quindi che si perda tempo a tentare di rifare film di tale livello, quando , come sa bene ogni appassionato, vi sono una miriade di piccoli film del passato che hanno buone idee di fondo ma sono penalizzati da una realizzazione complessiva pessima. Questi sarebbero ottimo materiale da cui partire per un operazione di aggiornamento.

Per puro diletto intellettuale ne elencherò alcuni in questo e altri post, via via che mi vengono in mente. Se qualcuno ha qualche altra idea mi piacerebbe saperla. Lo so, è un divertimento da nerd, un onanismo intellettuale, ma il sottoscritto si diverte con poco.


Il primo che mi viene in mente è Robot Jox, di Stuart Gordon del 1990 anche se sembra di dieci anni più vecchio ( volendo essere buoni). L’idea è interessante: portare sullo schermo in live-action i mecha tipici degli anime giapponesi, idea che non mi pare abbia precedenti in occidente (correggetemi se sbaglio).

La vicenda ha luogo diversi anni dopo la Terza Guerra Mondiale, il pianeta è conteso tra due superpotenze, che manco a dirlo sono Russi e Americani. La vecchia guerra è stata bandita e le dispute su risorse e territori si risolvono in duelli organizzati tra giganteschi robot gladiatori.In particolare l'oggetto della contesa è l'Alaska, per la quale si affronteranno il tormentato ma leale pilota americano e il letale e sadico pilota russo, talmente stronzo che nella sequenza iniziale schiaccia (o disintegra, sinceramente non ricordo) un pilota sconfitto incastrato tra le lamiere del suo robot che implora pietà. Ovviamente l'americano sconfigge il russo ma lo risparmia in uno dei finali più schifosamente volemose bbene che il cinema di fantascienza ricordi.

L’idea non è niente male ma cozza con una messa in scena estremamente poveristica e sciatta e una sceneggiatura che non da meno. La sensazione che trasuda da costumi, scenografie e in generale l’idea di futuro portata su schermo, è quella di un film con almeno quindici anni in più sulle spalle, un film nato vecchio. Lasciamo stare poi certe cadute di stile come il cartellone della Prenatal che fa capolino a metà film o la sequenza psichedelica dai colori acidi, che indovinate un po’ , sembra pure quella uscita da una pellicola di tre lustri prima.

Ma la pecca più grave è l’emarginazione che subiscono i poveri robot , le cui risse sono confinate solo all’inizio e alla fine del film. In più soffrono di un design tremendo (tranne quello del cattivo russo ovviamente)


Sarebbe interessante riproporre oggi un simile concept, magari sostituendo la solita WW3 con un gigantesco collasso economico e ambientale che ha spinto gli stati ad elaborare un nuovo tipo di guerra per accaparrarsi le ultime zone vivibili. Affidate il design dei robot a gente che ci sa fare come Keith Thompson e la regia a un Neill Blomkamp e avrete un godibile blockbuster.

Inoltre pare che non sono l’unico a pensarla così: un tale, Robert Simons ha pure realizzato impressionanti concept art per un ipotetico remake!




mercoledì 17 febbraio 2010

Ex Drummer


Belgio 2007, Colore 104 min

Regia: Koen Mortier

Con Dries Van Hegen, Norman Baert

L’affermato scrittore Dries decide di accettare la proposta di tre individui di suonare nella loro band come batterista, sperando di trovare ispirazione per il suo nuovo romanzo.

I suoi compagni della band sono tre perdenti uno peggio dell’altro: c’è Koen, un sociopatico misogino e costantemente arrapato con il vizio di pestare le donne; Jan , un omosessuale afflitto da una paralisi psicosomatica del braccio e succube di una madre possessiva, e Ivan, tossicodipendente sordo con moglie e figlia a carico.

La band, i The Feminsts, dovrà esibirsi solo una volta, suonando Mongoloid dei Devo .

Dries si immerge nel mondo di questi tre casi umani finendo per sconvolgere i fragili equilibri su cui si regge.

Nella mia personale tassonomia cinematografica c’è una ristretta categoria chiamata Incidenti di Percorso. I film che ci finiscono dentro sono accomunati sia da caratteristiche a loro intrinseche sia dalle circostanze in cui sono stati visti. Film visti per caso, a orari improponibili durante notti insonni o pescati dagli scaffali del videonoleggio, roba che altrimenti non mi sarebbe mai passato per la testa di visionare e che, complice anche non sapere cosa mi attendeva , mi hanno colpito duro. Ex Drummer rappresenta bene questa categoria e colpisce maledettamente duro.

Tratto da un romanzo di Herman Brusselmans e opera prima dell’esordiente Koen Mortier, Ex Drummer è difficile ma allo stesso tempo coinvolgente, provocatorio ma non superficiale, imperfetto ma efficace. Un film problematico che mette alla prova lo spettatore sotto molti aspetti. Sicuramente non per tutti i palati. I temi e le situazioni sono forti e spesso scabrosi; davanti agli occhi del protagonista sfila una ricca parata di manifestazioni della bassezza umana,dalla violenza fisica a quella psicologica passando per le più disparate perversioni . Tutto affogato in un clima di generale cinismo e insensibilità di tutte le parti in gioco.

La discesa negli inferi in cui accompagniamo lo scrittore Dries è una delle storie più disturbanti che mi è capitato di vedere negli ultimi anni, e non tanto per la grande quantità di violenza e di eccessi messi in scena (talvolta gratuitamente), ma perché da questa discesa non si può risalire, non c’è speranza .Non c’è alcun riscatto esistenziale per questi perdenti, neppure come spiriti liberi o ribelli decadenti. Neanche per Dries che rimane in qualche modo contaminato dal loro inferno personale. E forse neanche per noi spettatori, che una volta giunti ai titoli di coda ci ritroviamo con una sensazione di desolante vuoto.

Mortier mette in scena tutto ciò con una regia esuberante, ricercata fino al virtuosismo, alternando i registri più disparati, dalla regia semi-documentaristica ai toni onirici,una pluralità di stili che però non sempre si amalgamano a dovere. Decisamente avulse dal tono generale del film sono alcune divagazioni surreali che sembrano finalizzate più ad una ricerca dell’effetto weird a tutti i costi che da reali esigenze narrative (una su tutte la sequenza in “interni femminili”). Lo stesso si può dire di molte scene violente e di sesso, che risultano superflue per la riuscita generale della pellicola. Il lavoro maggiore nel rendere vivido questo malsano mondo lo fa un cast che sembra nato per interpretare la fauna di derelitti che affolla il film, perfetto nei volti, nei corpi e nelle movenze. Memorabile Norman Baert che da corpo ad uno schizzato da manuale, con una recitazione tesissima e sempre sul punto di esplodere nella violenza più insensata raggiungendo il culmine nella sequenza del concerto. Azzeccate anche le location,tanto squallide da riflettere appieno la desolazione interiore dei personaggi.

Un ultimo tocco di classe lo da la colonna sonora, composta interamente di pezzi hardcore e noise, in cui figurano, tra gli altri, i Lightning Bolt che aprono le danze nei titoli di testa.

Ex Drummer è simile alle canzoni punk della sua colonna sonora: rozzo, confusionario, colmo di difetti, a tratti provocatorio fino al ridicolo, a tratti addirittura pretenzioso, ma anche tremendamente efficace, capace di penetrare sotto la pelle anche dello spettatore più navigato. Una bella e disturbante passeggiata negli abissi del nichilismo puro. Senz’altro un film da maneggiare con cura.

Trailer

mercoledì 10 febbraio 2010

District 9

USA/Nuova Zelanda 2009 ,colore , 112 min.
Regia: Neill Blomkamp
Con: Sharlto Copley

Nel 1982 un enorme astronave aliena appare nel cielo di Johannesburg. Al suo interno trasporta centinaia di migliaia di esseri extraterrestri impossibilitati a fare ritorno sul loro pianeta natale. Al pari degli altri profughi e rifugiati, gli alieni, ribattezzati “gamberoni”, vengono sistemati in un grande ghetto denominato Distretto 9.

Gli anni passano, i problemi di convivenza con gli “immigrati” crescono e l’opinione pubblica fa pressioni sul governo affinché trovi loro una nuova sistemazione .Si decide quindi di trasferire le creature in un nuovo campo distante dai centri abitati. L’operazione di sfratto viene affidata ad una compagnia privata, che invia sul posto un plotone di mercenari supervisionati da Wikus Van De Merwe, pupillo del presidente della multinazionale.

Durante lo sgombero Wikus viene accidentalmente contaminato da un liquido alieno che provoca nel suo corpo orrende mutazioni, che sembrano in grado di interfacciarlo con le tecnologie belliche aliene, da sempre precluse agli umani. Questo lo rende una preda appetita dalla multinazionale per cui lavora e per le bande criminali delle baraccopoli. Braccato, decide di cercare aiuto nel Distretto 9…

Decisamente una bella sorpresa questo District 9. Nato dalle ceneri del progetto di una pellicola ispirata alla serie di sparatutto Halo, riprende ed espande tematiche e stile del cortometraggio Alive in Joburg (2005) che aveva portato Neill Blomkamp all’attenzione di Peter Jackson, qui in veste di produttore.

Le premesse della trama possono far tornare alla mente Alien Nation (1988), ma il film di Blomkamp ha sviluppi ben diversi. Innanzitutto salta subito all’occhio la forma della narrazione che alterna sequenze drammatiche “tradizionali” a sezioni documentaristiche con interviste , immagini di repertorio e servizi di TG . Questa soluzione permette al regista di liberarsi dalle costrizioni che una narrazione convenzionale avrebbe imposto e offrire una spaccato ampio e dettagliato del contesto socio-politico in cui la storia si svolge, indagando le reazioni e i mutamenti che l’irruzione dell’elemento extraterrestre ha provocato nel microcosmo degli slums di Johannesburg . Una soluzione che caratterizza buona parte della prima metà del film,quella che sicuramente rimane più impressa. Il mondo del Distretto 9 racchiude bizzarrie che non ti aspetteresti di trovare in un blockbuster: extraterrestri insettoidi ossessionati dal cibo per gatti che per procurarsi la prelibata pietanza vendono armi aliene a gangster nigeriani, e questi ultimi che impiegano gli organi dei gamberoni in deliranti riti magici.

La seconda parte, maggiormente narrativa e improntata all’azione forse risulta meno originale ma non per questo meno godibile, memorabile rimane sicuramente la guerriglia urbana che nel finale infiamma la baraccopoli aliena con tanto di robottone armato di gravity-gun. Purtroppo non sempre Blomkamp riesce a mantenere il ritmo costante soprattutto a causa di una narrazione a tratti troppo ellittica. Un altro aspetto che avrebbe meritato maggior approfondimento è la caratterizzazione dei personaggi umani, tutti piatti e incolori o comunque incasellati in precisi archetipi (il mercenario sadico e militarista, il magnate avido e senza scrupoli ecc… ). Lo stesso non si può dire dei gamberoni ,strani e incomprensibili, sia dal punto di vista biologico che intellettuale , ed è proprio questa distanza dai terrestri a catalizzare la tensione tra le due razze. In scena sono resi discretamente dalla computer-grafica della Weta , anche se l’uso di animatronix non avrebbe guastato.

Nell’ottica di un film di intrattenimento, salvo alcune pecche District 9 funziona alla grande,ma vista la locazione della vicenda ,il Sud Africa, si presta a interessanti parallelismi su cui sarebbe stato meglio soffermarsi in misura maggiore, sicuramente la pellicola ne avrebbe guadagnato.

In chiusura, non posso fare a meno di notare alcune analogie con Avatar di James Cameron. In entrambe le pellicole il protagonista umano passa dalla parte dell’alieno non solo per motivi morali e etici, ma anche a seguito di un mutamento fisiologico. Un altro punto in comune è l’istintiva identificazione degli alieni con quelli che nella nostra società sono comunemente visti come i deboli e gli oppressi: in District 9 ci troviamo di fronte ad una palese metafora dell’immigrazione e dell’ apartheid, mentre nel film di Cameron si possono riconoscere nei Na’Vi tutti i popoli vittima dei colonialismi vecchi e nuovi. Ma se in Avatar gli abitanti di Pandora incarnano li prototipo del “buon selvaggio”, quasi una proiezione di un umanità ancora innocente e incontaminata dal progresso , i gamberoni ispirano se non diffidenza addirittura disgusto a causa dei costumi tanto diversi dai nostri. Un ultima analogia: entrambi i film si concludono con una relativa vittoria dell’alieno sull’umano,sia a livello macroscopico che individuale (le mutazioni permanenti dei protagonisti), una vittoria a cui però non segue alcuna conciliazione tra le due specie. Insomma sono lontani i tempi di E.T. e Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo e sembra di essere più dalle parti di certa fantascienza anni 50. Lascio a chi è più competente di me il compito di decrittare cosa indichi questo mutamento della figura dell'alieno nell’immaginario collettivo. Il pippone mentale è terminato , andate in pace.

sabato 9 gennaio 2010

Dall'Archivio: Stati di Allucinazione

Piccola premessa:Una volta terminata la stesura dell'articolo mi sono accorto di non aver scritto una recensione, almeno non nel senso più comune del termine. Ho dedicato davvero poco spazio alla valutazione estetica del film in sè, privilegiando maggiormente l'analisi e le varie pippe intellettual-cinefile annesse.

Da qui la decisione di creare una nuova rubrica per contenere questa e altre pseudo-recensioni dal nome Dall'archivio, che si occuperà di film più attempati, approssimativamente quelli con almeno 10-15 anni sulle spalle.Più che recensioni sono pensieri su piccole perle poco conosciute con annessi link di approfondimento etc...

Come il resto del blog la rubrica ha uscite irregolari, dipende da cosa mi capita sottomano.


USA 1980, colore, 102 min

Regia : Ken Russel

Con: William Hurt

Anni 70 : Il Dottor Eddie Jessup si occupa di studi sulla schizofrenia, ma la sua vera preoccupazione è un'altra: sondare i più nascosti recessi della coscienza umana alla ricerca della Verità sul’esistenza dell’uomo, un ossessione che lo perseguita da quando durante l’adolescenza perse la fede vedendosi morire il padre davanti agli occhi .Per questo il dottor Jessup si sottopone a lunghi periodi di isolamento all’interno di una vasca di deprivazione sensoriale. Ma tutto ciò non basta.

L’occasione per portare la sua ricerca ad un livello superiore la trova in Messico, dove partecipa ad un rito sciamanico in cui assume una potente e sconosciuta droga che gli procura un esperienza mistica mai sperimentata prima.

Jessup porta la droga con sé negli USA per proseguire gli studi, nonostante l’opposizione dei colleghi e della moglie. Ma i continui trip procurati dalla sostanza, in combinazione con l’isolamento nella vasca sembrano avere inquietanti effetti collaterali.

Non aprite quella porta (della percezione)

Una delle leggi fondamentali che regolano l’universo dei film dell’orrore è che la curiosità uccide il gatto. I film dell’orrore ci insegnano che non è salutare, anzi, è decisamente sconsigliato ficcare il naso nella cantina della baita sperduta nei boschi o guardare troppo da vicino l’uovo rinvenuto all’interno dell’antica astronave aliena. La curiosità , la ricerca del sapere è un motore formidabile per portare avanti la narrazione e fornire motivazioni plausibili ai personaggi .Personaggi che in genere fanno una brutta fine.

E se è pericoloso avventurarsi in luoghi lugubri figuriamoci quanto lo sia scandagliare l’inconscio dell’essere umano: questa è la premessa da cui parte Ken Russell in Stati di Allucinazione. Il plot riprende l’omonimo romanzo di Paddy Chayefsky che si ispirava agli studi condotti da John Lilly sugli stati alterati di coscienza intrecciandoli con l’inconscio collettivo di Jung e la vecchia teoria della ricapitolazione di Ernst Heckel.

Scegliendo di affrontare queste tematiche è facile cedere alla tentazione di dirottare il tutto in uno sconclusionato trip visivo , nascondendo dietro il paravento dello strano per essere strano la totale mancanza di idee. Ma per fortuna Russell di idee ne ha,e ha ben chiaro ciò di cui vuole parlare. La pellicola è ben lungi dall’essere un amorfo polpettone psichedelico , anzi, mantiene una struttura narrativa lineare ma che non impedisce a Russell di bombardare lo spettatore con suoni e immagini tanto bizzarre quanto affascinanti: allegorie religiose, crocifissioni di esseri demoniaci , una rilettura pop del Peccato Originale e grandi cataclismi che fanno da teatro alle origini della vita sulla terra. E questo è solo il comparto allucinatorio. Già, perché ad alterarsi non è solo la coscienza ma anche la carne stessa .

Nonostante il film abbia quasi trent’anni rimane ancora disturbante ed è interessante notare come abbia anticipato molte tematiche del successivo cinema fantastico . La già citate mutazioni richiamano quelle contemporanee di Cronenberg, la ricerca della verità, di una dimensione trascendentale tramite l’abuso dei sensi si può ritrovare anche nel recente Martyrs (2008). Se proprio vogliamo essere puntigliosi, il film di Russell presenta con largo anticipo anche temi e soluzioni visive di manga e anime. La scena della trasformazione finale di William Hurt nella vasca di deprivazione sensoriale, con tanto di metallo che si piega sotto la pressione della sua forza psichica, ha molte analogie con diverse sequenze di Akira (1988) così come il tema della memoria genetica. Tema presente, assieme a quello della regressione fisica verso stadi primitivi, anche nel manga Fortified School (1995) di Takeshi Narumi.

Come detto in precedenza, Russell non si limita a mettere in scena un immaginifico tour de force visivo, ma attraverso esso racconta della ricerca della conoscenza e dell’ambivalente rapporto dell’uomo con essa. Il Dottor Jessup si incammina nel suo percorso di gnosi per trovare un senso alle sofferenze dell’esistenza, soprattutto dopo che la religione si è dimostrata insufficiente, e per farlo si affida alla scienza, in questo caso all’alterazione dei processi chimici del cervello. Jessup vuole squarciare il Velo di Maya, vuole uscire dalle tenebre della caverna per andare incontro alla luce della conoscenza , una tensione che nel film è rappresentata dall’immagine ricorrente dell’entrata della grotta degli sciamani. Ma una volta attraversata , quest’entrata si rivela uno squarcio che da su un realtà incomprensibile, priva di senso, sul nulla, come lo stesso Jessup racconta nel monologo finale. Una prospettiva che ricorda da vicino quella dell’orrore cosmico lovecraftiano e che ritornerà qualche anno dopo ne Il Signore del Male (1987) di John Carpenter , film che per’altro ha più di un punto in comune con Stati di Allucinazione. La conoscenza talvolta ha un prezzo, è questo è l’infelicità,e alla luce di ciò è palese come la scena in cui Jessup rivive il Peccato Originale riassuma tutto il sottotesto del film.

Un film curioso e affascinante questo di Russell che merita senz’altro di essere riscoperto.

Forse non tutti sanno che...

  • Il film è stato nominato all'Acadamy Awards del 1981 nelle categorie Miglior Suono e Miglior Colonna Sonora Originale, senza però vincerne alcuna. I premi se li sono aggiudicati rispettivamente L'Impero colpisce ancora e Saranno Famosi.
  • Nel film compare Drew Barrymore (che all'epoca aveva cinque anni) nel ruolo di una delle figlie di Jessup.
  • Molti degli attori sperimentarono una vera vasca di deprivazione sensoriale, tra questi William Hurt che ebbe addirittura allucinazioni. Ken Russel dal canto suo, assunse funghi allucinogeni che però gli procurarono un brutto viaggio.
  • Fu uno dei pochi film ad avvalersi del sistema Megasound, un sistema di altoparlanti presente nei cinema della Warner Bros che riproduceva in modo particolarmente vivido i suoni di scena.
Per Approfondire